Programmazione Neuro Linguistica, una breve guida per orientarsi

La Programmazione Neuro Linguistica (PNL) è un modello che studia i comportamenti di successo e punta a renderli replicabili. La sua applicazione nel mondo del coaching e della formazione consente di raggiungere importanti benefici, sia a livello personale che relazione, nella vita privata come nel lavoro. Ma cos’è di preciso la PNL? Come è nata e come si è sviluppata? A cosa serve?

Nel mondo del coaching e della formazione, la Programmazione Neuro Linguistica (meglio conosciuta con l’acronimo PNL) è un argomento piuttosto divisivo. C’è chi la ama in modo acritico, credendola l’unico valido strumento per impostare percorsi di cambiamento personale e valorizzazione dei talenti, e c’è hi la odia, descrivendola come un subdolo arnese di manipolazione della mente. Il problema, però, è che il dibattito è spesso viziato da un difetto di fondo: chi parla non ha bene contezza dell’argomento della discussione. Non tutti, quindi, sanno rispondere alla domanda basilare: cos’è la PNL? In questo articolo proviamo a indicare alcuni elementi fondamentali, che possono far chiarezza e aiutare la comprensione della programmazione neuro linguistica.

Cos’è la PNL: definizione e breve storia dell’a programmazione neuro linguistica

Cominciamo proprio dalla domanda cardine, cioè dalla definizione di PNL. Una delle formulazioni più valide e compiute di questo concetto è quella espressa da Simone Micheletti nella sua Enciclopedia della PNL.

“[La Programmazione Neuro Linguistica è la] tecnologia di modellamento il cui soggetto di studio principale è ciò che fa la differenza tra le performance dei geni e quelle delle persone mediocri, nello stesso settore di attività. Lo studio dell’eccellenza umana. Uno strumento che studia come le persone organizzano il loro modo di pensare, le loro emozioni, il loro linguaggio e i loro comportamenti per ottenere i risultati che ottengono. Lo studio dell’esperienza soggettiva”.

Interessante è anche la duplice definizione fornita dall’Oxford English Dictionary:

“[La PNL] è un modello di comunicazione interpersonale che si occupa principalmente della relazione fra gli schemi di comportamento di successo e le esperienze soggettive che ne sono alla base"

“[La PNL] è un sistema di terapia alternativa che cerca di istruire le persone all'autoconsapevolezza e alla comunicazione efficace, e a cambiare i propri schemi di comportamento mentale ed emozionale”

Al di là di alcune fluttuazioni terminologiche (“tecnologia di modellamento”, “modello di comunicazione”, “sistema di terapia alternativa”), il nocciolo della questione rimane solido: la PNL punta a rendere replicabili i comportamenti che permettono di sviluppare le proprie potenzialità e puntare all’eccellenza. D’altra parte, anche il nome è emblematico dello scopo della PNL: una programmazione di comportamenti innati e inconsapevoli, realizzata facendo leva sui processi neurologici che li sottendono e sul linguaggio.

Alle origini della PNL: Bandler e Grinder

Per meglio inquadrare il fenomeno della PNL, può esserne utile tracciare una breve storia, i cui inizi si collocano tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 del 1900. Capostipiti furono Richard Bandler e John Grinder, dell’Università della California di Santa Cruz. Attorno a loro, si formò un nutrito gruppo di ricercatori (i Meta Kids) che avevano l’obiettivo di studiare le capacità comunicative fuori dal comune di alcuni terapeuti statunitensi, come Fritz Perls e Virginia Satir. Il lavoro di Bandler e Grinder culminò con la pubblicazione del libro La programmazione neuro linguistica – Volume I, alla cui stesura presero parte anche Robert Dilts e Judith DeLozier.

Gli anni ’80, però, segnano una sorta di passaggio di testimone nel mondo della PNL. I due fondatori, infatti, si ritirano (anche se non completamente) e lo spazio di studio fu occupato da nuove personalità, come Anthony Robbins (che si occupò molto del rapporto tra PNL e marketing) e Michael Hall.

Peraltro, tutti gli anni ’80 e ’90 furono attraversati dalla lotta a suon di carte bollate tra Bandler e grinder per la paternità della PNL. Battaglia che finì, all’inizio del nuovo millennio, con un pareggio che incoronò entrambe come cofondatori.

A cosa serve la PNL

Da quanto detto finora, emerge chiaramente come la PNL punti a modificare le mappe neurologiche e linguistiche per spingere l’individua verso comportamenti migliori rispetto a quelli messi in atto in passato, quindi verso l’eccellenza. I benefici che la programmazione neuro linguistica è in grado di generare, quindi, sono molteplici e riguardano tutti i campi, dalla vita privata a quella professionale.

Per quanto riguarda le emozioni, ad esempio, grazie alla PNL è possibile lavorare per controllare ed eliminare quelle negative e potenziare quelle positive. Allo stesso modo, questa metodologia permette di scardinare convinzioni e comportamenti radicati che hanno un effetto limitante sul proprio agire, permettendo, allo stesso tempo, di crearne di nuovi, più utili. Inoltre, porta a lavorare sulle proprie fobie per cancellarle.  In generale, infine, la PNL migliora le abilità relazionali e quelle di comunicazione.


Digital Mindset: pensare digitale per vincere le sfide del futuro

Il digital mindset è una caratteristica essenziale per riuscire a tenere il ritmo della trasformazione digitale, soprattutto nel mondo del lavoro. Nel concetto di mentalità digitale, infatti, rientrano tutta una serie di soft skill che rendono ciascuno capace di sviluppare creatività, proattività e spirito di adattamento, con notevoli vantaggi per sé stessi e per l’azienda in cui si lavora.

La digitalizzazione del mondo del lavoro e la progressiva estensione della tecnologia a tutti gli aspetti della vita quotidiana non comporta solo la necessità di apprendere nuove abilità pratiche ma anche la trasformazione della propria “forma mentis”. Digitale, infatti, significa rapidità, costante mutevolezza, condivisione. Per acquisire tutti questi elementi (e molti altri ancora) tra le proprie soft skill è fondamentale sviluppare il proprio digital mindset. Se non se ne è mai sentito parlare, è arrivato il momento di colmare (urgentemente) questa lacuna.

Cosa si intende per digital mindset

Il concetto di digital mindset, infatti, può sembrare una novità introdotta recentemente dal boom digitale post pandemia, ma in realtà ha già quasi venti anni. La prima traccia si trova in uno studio di Vivienne Benke, che, nel 2013, ne ha dato la seguente definizione:

“Il Digital Mindset è costituito da un insieme di conoscenze ed esperienze (…) che vengono riconosciute e utilizzate per avere successo nell’ambiente digitale.”

Appare chiaro, quindi, come la mentalità digitale sia un bagaglio di contenuti che danno forma a una modalità di pensiero, a un vero e proprio approccio, che può essere rivolto al lavoro (campo di applicazione principale del concetto) ma che da li si estende potenzialmente a ogni aspetto della vita quotidiana. Ovviamente, nella definizione gioca un ruolo chiave la connessione con l’ambiente digitale. Le skill che rientrano nel digital mindset, infatti, sono quelle tipicamente richieste per saper comprendere e cavalcare al meglio le innovazioni portate dalla digitalizzazione.

Leggi anche: La facilitazione visuale

Le caratteristiche di una mentalità digitale

Volendo provare a fare un elenco (necessariamente non esaustivo) delle caratteristiche che qualificano una mentalità digitale, si potrebbero indicare le seguenti:

  • curiosità;
  • orientamento al miglioramento e all’apprendimento;
  • elasticità e capacità di adattamento i cambiamenti;
  • rapidità e reattività;
  • capacità di comunicazione;
  • capacità di condivisione.

I vantaggi di sviluppare il pensiero digitale

Per comprendere quali vantaggi una mentalità digitale possa apportare, nella vita come nel lavoro, è opportuno fare riferimento alla distinzione tra fixed mindset e growth mindset. Il primo fa riferimento a un atteggiamento mentale chiuso e statico; il secondo, a cui appartiene il digital mindset, è rappresentato, invece, da una mentalità vivace e duttile. Quest’ultimo approccio è sena dubbio quello che paga di più e meglio, perché rende più efficienti e produttivi e quindi più sereni nell’affrontare le dinamiche e le sfide della società digitale.

Cos’è l’intelligenza emotiva

Digital mindset e trasformazione digitale delle aziende

Alla luce di questo detto finora, appare chiaro come quella del digital mindset sia una sfida chiave per tutte le aziende, in qualunque settore operino, visto che ormai nessun segmento di mercato può dirsi immune dalla digital transformation. Ed è una sfida in cui le aziende sono coinvolte in una duplice veste: sia direttamente, come imprese, sia attraverso i propri dipendenti. Il concetto di digital mindset come asset fondamentale, infatti, può essere riferito ai singoli lavoratori ma anche all’organizzazione nel suo complesso. Sono entrambe a doversene dotare. D’altra parte, la paura del futuro, del rischio, della scommessa è oggi il freno più forte (e anche il più pericoloso) che limita l’iniziativa imprenditoriale. Evolversi è indispensabile.

Learning organization, le aziende che apprendono hanno una marcia in più

Ed è qui che entra in gioco la formazione, che deve essere continuativa e di qualità. Perché il digital mindset non è una dote innata (anche se ci possono essere persone più o meno predisposte ad una certa apertura mentale) ma il risultato di un percorso di apprendimento e di esercizio. Inoltre, la mentalità digitale, per sua stessa natura, non può essere considerata un dato acquisito una volta per sempre ma va allenata costantemente.

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Facilitazione visuale: disegnare facilita il pensiero e l’apprendimento

La facilitazione visuale (conosciuta anche come facilitazione grafica) è un potente strumento di apprendimento, capace di attivare fertili processi creativi. Esprimersi ed elaborare idee procedendo per immagini, infatti, attiva il cervello più di quanto non riesca a fare la parola scritta. Ecco perché, soprattutto nell’ambito della formazione aziendale con approccio esperienziale, continuano a fiorire e ad essere molto richiesti i corsi di facilitazione visuale o comunque i percorsi fondati su questa tecnica.

Se si osserva la crescita e lo sviluppo di un bambino nei primi mesi e nei primi anni di vita ci si rende facilmente conto di quanto disegnare sia per lui un’attività quasi innata, prima e più della scrittura. In primo luogo, perché è qualcosa che investe la dimensione tattile. Prendere un pennarello, farlo scorrere su un foglio, scoprire che lascia una scia e che magari quella scia sporca le dita: sono tutte azioni concrete, che impegnano simultaneamente corpo e mente. In secondo luogo, poi, disegnare è una primordiale forma di espressione, libera e indipendente rispetto alle costrizioni dell’alfabeto. Per averne un assaggio, basta correre con la memoria ai graffiti degli uomini primitivi, studiati sui libri di storia. Insomma, visualizzare permette di conoscere, aiuta a comprendere, consente di imparare. Allo stesso tempo, il disegno mostra a tutti la propria personale rappresentazione del mondo. La visualizzazione, quindi, è conoscenza ed espressione.

Leggi anche l’approfondimento sulla formazione esperienziale

Cos’è la facilitazione visuale?

Quanto detto finora rende piuttosto chiaro il perché, soprattutto in anni recenti, il mondo della formazione e del coaching si sia appropriato del disegno come strumento di apprendimento, fino a renderlo un vero e proprio modello. È così che si è giunti alla teorizzazione della facilitazione visuale (o facilitazione grafica) in senso stretto, che può essere definita come

la capacità di tradurre idee e pensieri in disegni e grafici.

Uno strumento che deve essere appreso e potenziato per poi essere utilizzato per continuare ad apprendere.

Leggi anche l’approfondimento sull’intelligenza emotiva

La facilitazione visuale come strumento di formazione dei talenti

I corsi di formazione destinati al personale delle aziende e delle organizzazioni sono senza dubbio uno degli ambiti di maggiore e più proficua applicazione della facilitazione visuale. Quest’ultima, infatti, diventa spesso un cardine formativo irrinunciabile, soprattutto per via degli obiettivi che consente di raggiungere. Il disegno, infatti, attiva risorse mentali inedite e difficilmente stimolabili in altro modo. Di fronte a una rappresentazione grafica, il cervello si accende, cerca connessioni, elabora in modo estremamente creativo.

Ciò che è fondamentale in un corso di formazione incentrato sulla facilitazione visuale è guidare ogni partecipante alla scoperta del proprio particolare modo di disegnare e schematizzare. Un’attività così personale, infatti, non può essere standardizzata ma al massimo accompagnata attraverso la comprensione di poche regole di base. Il resto è sperimentazione personale e scoperta del proprio talento “visualizzatore”, attraverso l’uso di una copiosa cassetta degli attrezzi, fatto di testi, contenitori, pattern e colori.

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Learning organization

Learning organization, le aziende che apprendono hanno una marcia in più

La learning organization, nella teorizzazione iniziata da Peter Senge, è un’organizzazione capace di apprendere in modo continuo e costante. Diventare una learning organization, però, non è scontato, serve possedere determinate caratteristiche, che si raggiungono solo con un lavoro specifico.

La saggezza popolare insegna che nella vita non si smette mai di imparare. Non perché l’apprendimento sia un fardello che ciascuno è condannato a portarsi addosso per sempre, ma perché arricchire il proprio bagaglio di conoscenze e capacità è il modo migliore per andare avanti. Questo vale senza dubbio per le persone, ma è altrettanto vero anche per le organizzazioni, siano esse aziende, associazioni, istituzioni o altre realtà simili. Infatti, una learning organization, cioè un’organizzazione che apprende, è in continua e costante crescita, riuscendo a valorizzare i talenti che la compongono. Non a caso, il concetto di learning organization è ormai molto diffuso nel mondo della formazione aziendale, perché indica un punto di arrivo a cui molte strutture (giustamente) tendono. Ma cosa qualifica realmente un’organizzazione che impara? Quali sono i fattori essenziali che favoriscono questo processo? E quali i benefici che si ottengono? Proviamo a rispondere a queste tre macro-domande, per entrare meglio nel cuore delle learning organization.

Cos’è una learning organization

Il concetto di learning organization è spesso associato al nome dello scienziato statunitense Peter Senge, esperto in scienza dei sistemi. È lui, infatti, ad aver avviato la riflessione organica sul tema, pubblicando un libro dal titolo “La quinta disciplina: l'arte e la pratica dell'apprendimento organizzativo”. È quasi ovvio, quindi, attingere ai suoi scritti per una definizione compiuta di learning organization:

“[…] è un'organizzazione nella quale le persone - a tutti i livelli - aumentano di continuo la capacità di produrre risultati, per i quali hanno un reale interesse. […]”

Ovviamente, nella realtà, non tutte le organizzazioni riescono a realizzare l’obiettivo di un apprendimento continuo. O almeno non in maniera naturale e spontanea. Anzi, quello che di solito accade è esattamente l’opposto: un’azienda, nelle sue prime fasi di vita, si mostra dinamica a capace di crescere e migliorare, poi tende a irrigidirsi e quindi ad apprendere meno. Diventare una learning organization, quindi richiede allenamento.

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Peter Senge e le 5 discipline di un’organizzazione che apprende

Volendo dettagliare ancora di più le caratteristiche essenziali che permettono di riconoscere una learning organization, è bene rivolgersi ancora a Senge, che ne identifica cinque.

  • Pensiero sistemico

Il pensiero sistemico è ciò che consente a un’organizzazione di guardare a sé stessa come un agglomerato complesso, che trascende la semplice somma dei singoli pezzi. Per usare una metafora cara allo stesso Senge, pensare in modo sistemico significa vedere la foresta laddove qualcun altro vede solo un insieme di alberi. Questo significa dare peso alle connessioni, alle relazioni e a tutto quel reticolato di pesi e contrappesi che permette a un sistema di essere tale e di perpetrarsi.

  • Padronanza personale

I componenti di una learning organization sono convintamente e proficuamente inseriti in un processo di apprendimento continuo, che non significa semplicemente “sapere di più” ma riuscire ad applicare ciò che si impara nel lavoro. Questo si trasforma in un vantaggio competitivo dell’azienda verso i potenziali competitor.

  • Modelli mentali

Nella costruzione di Senge, i modelli mentali sono delle teorie e degli schemi che guidano il singolo individuo nelle decisioni. Quando sono particolarmente radicati, però, rischiano di trasformarsi in pregiudizi o forme di chiusura mentale e quindi dio generare errori. La learning organization, invece, è capace di identificare questi modelli, di analizzarli e di metterli in discussione.

  • Visione condivisa

Costruire una visione condivisa del futuro all’interno di un’organizzazione è compito delle leadership. Quando illuminati, i leader sono in grado di costruire tale visione partendo dal basso, fondandola sulla visione individuale dei singoli dipendenti. Se la calano e la impongono dall’alto, invece, non ottengono quello che dovrebbe essere il risultato principale: sfruttare la visione condivisa come leva per stimolare l’apprendimento.

  • Apprendimento di squadra

La capacità di apprendimento di un team non è data solo dalla somma delle conoscenze e delle capacità dei singoli membri che lo compongono. Ciò che fa davvero la differenza, infatti, è l’essere in grado di imparare insieme, l’uno dall’altro o in cooperazione.

L’intelligenza emotiva come risorsa

Diventare un’organizzazione che apprende

Come già accennato, essere una learning organization non è una condizione naturale. Bisogna intraprendere un percorso per arrivare alla meta, è necessario allenarsi (che è cosa diversa dal fare formazione, anche se pure questa svolge un ruolo centrale).

In particolare, ciascuna organizzazione dovrebbe:

  • dotarsi di una metodologia di apprendimento;
  • aggiornarsi costantemente e imparare dall’esperienza;
  • condividere le informazioni (per generare nuove conoscenze tra i suoi componenti);
  • creare un archivio dei contenuti e delle conoscenze di cui dispone.

I benefici di essere una learning organization

Da quanto detto finora, appare chiaro che diventare una learning organization richiede un impegno. Vale la pena fare questo sforzo? La risposta è indubbiamente sì. Perché essere un’organizzazione capace di apprendere costantemente significa guadagnare un vantaggio competitivo nei confronti degli avversari. Tale vantaggio si può concretizzare in diversi elementi, a cominciare da:

  • maggiore capacità di rispondere positivamente ai cambiamenti e di adattarsi alla realtà che muta senza perdere terreno;
  • maggiore capacità di innovazione;
  • possibilità (per le aziende) di migliorare i livelli produttivi, sia in termini di qualità che di costi;
  • rafforzare il senso di appartenenza delle risorse umane;
  • potenziare i processi decisionali;
  • rafforza la propria immagine esterna.

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formazione esperienziale

Formazione esperienziale, apprendere trasformando l’esperienza

Guida sintetica alla formazione esperienziale, metodologia che consente di sviluppare i talenti partendo dall’esperienza concreta e dalla riflessione su di essa. Cos’è? Come si sviluppa? A cosa serve? Pur avendo radici antiche, l’idea di apprendimento esperienziale ha trovato una sua compiuta teorizzazione con Kolb, ideatore dell’omonimo ciclo. E oggi è un metodo formativo molto utilizzato, soprattutto nelle organizzazioni.

Quando si scava nel mondo della formazione per le aziende e per lo sviluppo dei talenti personali è facile imbattersi nel concetto di formazione esperienziale. Si tratta, infatti, di una delle metodologie di maggior successo. Come spesso accade, però, a tanta notorietà si accompagna anche una buona dose di approssimazione. È così che la formazione esperienziale finisce per essere conosciuta male o confusa con concetti limitrofi. Ovviamente, essere esaustivi su un tema così complesso all’interno di un articolo non è possibile. Quello che si può fare, invece, è fissare alcuni punti cardine, a partire da una definizione ragionata di apprendimento esperienziale, passando per un accenno al Ciclo di Kolb e finendo con l’analizzare i vantaggi che una formazione di questo tipo può avere all’interno delle organizzazioni.

Cos’è la formazione esperienziale: definizione e brevissima storia

Ad un primo sguardo, la definizione di formazione esperienziale sembra abbastanza scontata: formarsi facendo esperienza. Che poi è un po’ quello che fanno i bambini, in modo naturale e spontaneo, ed anche quello che ognuno potrebbe continuare a fare per tutta la vita. Il nocciolo della questione è senza dubbio questo, ma fermarsi a questo livello significherebbe accontentarsi di un approccio superficiale. Meglio, quindi, provare a dare a tutto un po’ di profondità, aggiungendo degli elementi.

Partiamo dal punto più lontano nel tempo. Il concetto di apprendimento esperienziale, infatti, non è certo un’invenzione del XX secolo. Già Aristotele affermava che

le cose che dobbiamo imparare prima di riuscire a farle, le impariamo facendole”.

Ecco di nuovo il punto focale: fare e quindi apprendere, apprendere facendo. Però, pur riconoscendo al filosofo greco la paternità di questa intuizione fondamentale, bisogna avanzare di parecchi secoli per incontrare una strutturazione dell’esperienza come fonte di formazione. Il merito va soprattutto a David Kolb, il cui lavoro, però, poggia su solide fondamenta, rappresentate dall’elaborazioni di alcuni suoi illustri predecessori, come John Dewey, Kurt Lewin e Jean Piaget.

La definizione che Kolb dà di formazione esperienziale è illuminante:

“un processo in cui la conoscenza viene creata attraverso la trasformazione dell’esperienza.”

Cosa c’è di nuovo e di interessante? C’è il riferimento alla trasformazione, cioè ad un processo attivo che sta tra l’esperienza e la conoscenza. L’uomo, quindi, non impara semplicemente facendo le cose ma riflettendo su quel fare ed estraendo dall’esperienza il contenuto dell’apprendimento. Il succo della formazione esperienziale sta tutto qui.

Per approfondire: Coaching e valorizzazione dei talenti

Formazione esperienziale e Ciclo di Kolb

Partendo da questo approccio, Kolb elabora un modello, chiamato Ciclo di Kolb o Ciclo dell’apprendimento esperienziale. Secondo questo schema, la formazione esperienziale si articola in quattro fasi:

  • Esperienza Concreta: vivere esperienze in situazioni verosimili e reali per confermare e, a volte, scoprire le proprie risorse e il proprio potenziale;
  • Osservazione Riflessiva: riflettere sulle strategie adottate individuando aree di forza, debolezza e risorse agite;
  • Concettualizzazione Astratta: acquisire i presupposti metodologici che servono per gestire in modo ancora più efficace la situazione;
  • Sperimentazione Attiva: prendersi l’impegno di utilizzare i nuovi apprendimenti acquisiti nelle successive attività.

Attività formative indoor e outdoor

Secondo il Ciclo di Kolb, quindi, tutto ha inizio con l’esperienza, ma su questa è fondamentale che poi si innesti la riflessione e l’astrazione. Traducendo tutto ciò in un percorso formativo, si può dire che le sue due anime devono essere costituite dall’attività concreta che il formatore fa sperimentare ai partecipanti e dal successivo debriefing, che serve per guidare la riflessione.

Il successo dei progetti di formazione esperienziale ha portato anche alla moltiplicazione delle tipologie di attività che vengono proposte. Si va da quelle più tradizionali, generalmente indoor, a quello con profili più avventurosi e di contatto con la natura, che si svolgono outdoor. Il senso, però, rimane lo stesso: mettersi alla prova, sperimentarsi.

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L’importanza della formazione esperienziale per le organizzazioni: la valorizzazione dei talenti

Come già detto, la formazione esperienziale è una metodologia di sviluppo dei contenuti ampiamenti utilizzata nei percorsi dedicati alle organizzazioni. Infatti, si rivela estremamente efficace quando si ha l’obiettivo di lavorare sullo sviluppo dei talenti, con un approccio coinvolgente fondato sulle emozioni.

Solo a titolo di esempio, ecco alcuni percorsi e attività a cui può essere applicata la formazione esperienziale:

  • assesment center;
  • sviluppo della leadership;
  • team building;
  • change management;

Ciò che è fondamentale per la riuscita dei progetti, è affidarsi a formatori qualificati e capaci di elaborare dei percorsi personalizzati. Perché la standardizzazione ha poco a che fare con l’apprendimento esperienziale.


Intelligenza emotiva, cos’è e perché è importante

Cos’è l’intelligenza emotiva? Quali sono le sue caratteristiche nella teorizzazione di Goleman? Quali benefici porta nella vita personale e nel lavoro? Come misurarla e come svilupparla? In questo breve approfondimento ci sono le risposte a tutte le curiosità più importanti sull’intelligenza emotiva. Una nuova strada per imparare a gestire i sentimenti.

La contrapposizione tra intelligenza ed emozioni è un retaggio culturale duro a morire. Ancora oggi, nel linguaggio comune, si tende separare nettamente tutto ciò che è razionalità (automaticamente ricondotto all’intelligenza) da quello che invece attiene alla sfera dei sentimenti (e quindi delle emozioni). Addirittura, si tende a collocare questi elementi in parti diverse del corpo: l’intelletto nel cervello e le pulsioni sentimentali del cuore. Le teorie che ruotano attorno al concetto di intelligenza emotiva frantumano proprio questi steccati, mettendo insieme, in un binomio rivoluzionario, ciò che pensiamo e ciò che sentiamo. D’altra parte, accettare questa idea significa anche superare un ulteriore luogo comune, cioè la concezione monolitica dell’intelligenza, che dovrebbe essere unica e granitica e invece è multipla. Questa rottura rispetto all’opinione diffusa spiega probabilmente il grande successo che ha avuto negli ultimi anni la teorizzazione dell’intelligenza emotiva, di cui questo articolo prova a tratteggiare gli elementi fondamentali.

Cos’è l’intelligenza emotiva: definizione e modelli

Enunciare una definizione precisa dell’intelligenza emotiva (abbreviata con la sigla EI, in inglese) non è semplice, a riprova del fatto che si tratta di un concetto nuovo e ancora in evoluzione. Una buona e valida sintesi, però, è sicuramente quella proposta da Salovey e Mayer, professori statunitensi che per primi ne hanno parlato:

“(Intelligenza emotiva è) la capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguerle tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”

Su questa linea si muove anche la definizione proposta da Goleman, autore del libro più famoso sul tema, intitolato proprio “Intelligenza emotiva”:

“È la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”

Leggendo entrambe queste enunciazioni, pur nelle loro differenze, appare chiaro che l’intelligenza emotiva è un concetto complesso e cruciale, che non può certo essere ridotto a una generica e non meglio precisata empatia o gentilezza, men che meno a una impalpabile e innata felicità. Parliamo, invece, di un qualcosa che può determinare il successo personale e professionale, e che può essere allenato.

Il modello di Salovey e Mayer

I già citati Peter Salovey e John D. Mayer, psicologi statunitensi, sono considerati i primi teorizzatori dell’intelligenza emotiva. Nella loro concezione, questa si compone di quattro abilità:

  • Percepire le emozioni proprie e altrui, cogliendone indizi in tutti i canali di espressione (volto, tono della voce, gesti, ecc);
  • Comprendere le emozioni nelle loro caratteristiche essenziali e nel loro sviluppo;
  • Usare le emozioni, applicandole alla vita di tutti i giorni, sia sul piano personale che su quello professionale;
  • Gestire le emozioni, sia proprie che altrui, orientandole al raggiungimento di un obiettivo.

L’intelligenza emotiva secondo Goleman

Le quattro abilità enunciate da Salovey e Mayer diventano cinque nella visione di Goleman, psicologo e giornalista statunitense che è forse il nome più citato quando si parla di intelligenza emotiva.

Le cinque abilità secondo Golem sono:

  • Consapevolezza di sé, intesa come capacità di conoscere le proprie emozioni e saperle esprimere;
  • Gestione di sé, intesa come forma di autocontrollo che permette di dominare le emozioni e incanalarle verso obiettivi specifici e proficui;
  • Motivazione, intesa come capacità di orientare se se stessi verso i proprio obiettivi, con impegno e positività;
  • Empatia, intesa come capacità di percepire e ascoltare le emozioni delle persone con cui si entra in contatto;
  • Abilità sociali, intese come capacità di gestire le interazioni, i conflitti e i problemi di comunicazione.

Inoltre, ciascuna di queste cinque competenze, secondo Goleman, corrispondono delle abilità pratiche.

A cosa serve l’intelligenza emotiva

La motivazione dell’interesse che ha suscitato e suscita ancora oggi l’intelligenza emotiva va ricercata negli effetti benefici che provoca sulla vita degli individui e sulle loro relazioni. Avare una buona intelligenza 4emotiva e curarne lo sviluppo, infatti, permette di vivere in maniera più sana e consapevole e di avere successo nella vita professionale.

Sul piano personale, questo tipo di intelligenza è solitamente associato a una migliore conoscenza di sé e quindi ad un livello di autostima più alto e a un benessere psicologico maggiore. Tutto può avere ulteriori risvolti positivi nel rendimento scolastico come in quello professionale. Conoscere bene se stessi, inoltre, significa anche sapersi relazione meglio con gli altri, io tutti i contesti sociali in cui si agisce, come famiglia, amici e lavoro. In particolare, nel mondo del lavoro, a cui golem ha dedicato molta attenzione, l’intelligenza emotiva sarebbe caratteristica essenziale di una leadership di successo.

EQ: misurare l’intelligenza emotiva

Se è vero che l’intelligenza emotiva ha tutti questi vantaggi, appare molto importante riuscire a misurarla e a svilupparla. E quello della misurazione è proprio un dei punti deboli delle teorizzazioni su questo tema, almeno a detta dei detrattori. Mancherebbero, infatti, dei criteri sufficientemente obiettivi per fondare il calcolo dell’EQ (da affiancare all’IQ, il quoziente di intelligenza classico).

Di test valutativi ne sono stati elaborati diversi, sia nel modello di Salovey e Mayer, sia in quello di Goleman. Attualmente, i più diffusi sono:

  • Emotional Competency Inventory (ECI);
  • Emotional and Social Competency Inventory (ESCI),
  • Emotional Intelligence Appraisal.

Come sviluppare l’intelligenza emotiva

Ancora più importante di una corretta misurazione, però, risulta la possibilità di accrescere la propria intelligenza emotiva, di svilupparla con tecniche mirate, proprio come se si trattasse di un allenamento. Il processo, ovviamente, è lento e graduale ma parte sempre da una scelta: prendersi del tempo. Saper aspettare, infatti, è la chiave per entrare in contatto con le proprie emozioni e decodificarle. La fretta, invece, tende a non far vedere le cose, non aiuta la percezione.

Per iniziare, è possibile percorrere questi tre step:

  • Sintonizzati: impara a prestare la giusta attenzione ai tuoi sentimenti e alle tue emozioni;
  • Rispondi: datti il tempo per comprendere e valutare, senza reagire d’istinto;
  • Resta connesso: ricorda sempre cosa è importante per te.

Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, d’altronde, passa attraverso la risposta a tre domande di senso:

  • Cosa sto provando?
  • Quali possibili scelte ho davanti?
  • Cosa voglio davvero?

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Coaching, un percorso di crescita che valorizza il talento

Cos’è il coaching? Cosa fa un coach? Come si svolge un’attività di coaching e quali metodologie vengono applicate? Questo articolo prova a rispondere in maniera chiara e sintetica alle principali domande che riguardano questo percorso, di cui si fa ampio uso nei programmi di formazione, sia personale che aziendale.

Il termine coaching, nel mondo della formazione, è ormai ampiamente diffuso e conosciuto. Nato negli Stati Uniti negli anni ’60, oggi gode di ampio successo anche in Italia. Spesso, però, si fa di questa parola un uso scorretto, finendo per dare alla professione del coach un contorno troppo sfumato, che a volte, nell’immaginario collettivo, finisce per sfociare in quella di psicologo o psicoterapeuta. In realtà, non è affatto così, sia da un punto di vista formale che sostanziale. Ma allora cos’è il coaching? E chi è e cosa fa un coach?

Cos’è il coaching: definizione e tipologie

Di possibili definizioni del coaching ce ne sono molte. C’è chi parla di metodo, chi di percorso, chi invece si esprime in termini di allenamento. D’altra parte, una buona dose di ambiguità c’è anche nella traduzione letterale del termine inglese, che può essere reso come “istruire”, ma anche “guidare” e “allenare”, a seconda dei contesti.

Un riferimento da tenere on considerazione è sicuramente la normativa UNI 11601:2015, che disciplina alcuni aspetti di questa attività. In particolare, questa norma definisce il coaching come “un processo di partnership finalizzato al raggiungimento di obiettivi definiti”. I soggetti coinvolti, quindi, sono due: il coach e il coachee (che può anche essere rappresentato da un gruppo di persone). Per quanto riguarda i citati obiettivi, è sempre la normativa a qualificarli, parlando del coaching come di un’attività volta a “migliorare le prestazioni professionali e personali mediante la valorizzazione e il potenziamento delle sue (del coachee, ndr) risorse, capacità personali e competenze”. Detto in altre parole, al coach è affidato il compito di supportare il coachee in un percorso di crescita personale e/o professionale, per trasformare la paura del cambiamento in energia e opportunità.

Le diverse forme di coaching

Nel tempo, il concetto di fondo del coaching è stato esteso per adattarlo a diversi campi di azione. Ne sono scaturite, così, una miriade di declinazioni. Sempre facendo riferimento alla UNI 11601:2015, si possono individuare le seguenti tipologie:

  • Business coaching e Career coaching: indirizzati ai dipendenti di un’azienda ma anche a imprenditori, manager, quadri, commerciali, liberi professionisti, ecc;
  • Corporate coaching: utilizzato dalle aziende per formare figure specifiche su cui investire;
  • Executive coaching: espressamente pensato per chi ricopre ruoli di direzione;
  • Life coaching: finalizzato a facilitare le persone nell’elaborare programmi di autosviluppo e autoefficacia;
  • Parent coaching: destinato ai genitori;
  • Performance coaching: con focus sul miglioramento delle prestazioni nei diversi contesti di riferimento;
  • Sport coaching: focalizzato sul settore sportivo, per affiancare allenatori e tecnici e migliorare le prestazioni sportive degli atleti attraverso la preparazione mentale;
  • Targeted coaching: destinato a sviluppare competenze specifiche e comportamenti coerenti;
  • Teen coaching: di supporto agli adolescenti nella conoscenza di sé.

La figura professionale del coach

Alla luce di quanto detto finora, appare chiara la centralità della figura del coach, che ha un ruolo chiave nella strutturazione del percorso di coaching e nella sua realizzazione. In Italia, la professione di coach non è regolamentata, quindi non esiste un ordine professionale (come c’è, invece, per gli psicologi e per altri professionisti). Non esiste, perciò, una legge che fissa i requisiti minimi che si devono possedere per esercitare l’attività di coach né un percorso di studi prestabilito. Su questi punti, non è intervenuta neanche la normativa già citata, che si è limitata a fissare i requisiti del rapporto tra coach e coachee.

Il fatto che non esista una regolamentazione, non toglie che per svolgere la professione di coach sia fondamentale possedere conoscenze, competenze e caratteristiche che vanno oltre la “semplice” empatia. Infatti, i suoi compiti, all’interno di un percorso di coaching, si articolano su più livelli:

  • Facilitare la scoperta e la comprensione degli obiettivi individuali;
  • Far emergere dal coachee soluzioni e strategie che gli permettano di raggiungere i suddetti obiettivi;
  • Guidare il coachee ma lasciandogli piena autonomia e responsabilità.

Obiettivi e metodologie dei percorsi di coaching

Secondo la UNI 11601:2015, il servizio di coaching deve includere necessariamente le seguenti attività:

  • Ideazione del patto di coaching;
  • Individuazione delle competenze e delle risorse del coachee;
  • Definizione degli obiettivi e del conseguente piano di azione;
  • Feedback di conclusione.

L’inizio di un percorso di coaching passa attraverso un primo colloquio individuale, che serve proprio a fissar esigenze e obiettivi e a tracciare le linee guida dell’attività successiva. Ovviamente, questa fase di studio influisce anche sulla durata del percorso.

Gli obiettivi che coach e coachee stabiliscono, quindi, sono il cuore di tutto il percorso. Come strumento, il coaching può essere indirizzato verso molteplici finalità, come:

  • Aprirsi nuove possibilità di crescita umana e professionale;
  • Imparare a fare scelte e prendere decisioni;
  • Migliorare la gestione del proprio tempo;
  • Migliorare i rapporti di lavoro;
  • Incrementare la capacità di problem solving.