formazione esperienziale

Formazione esperienziale, apprendere trasformando l’esperienza

Guida sintetica alla formazione esperienziale, metodologia che consente di sviluppare i talenti partendo dall’esperienza concreta e dalla riflessione su di essa. Cos’è? Come si sviluppa? A cosa serve? Pur avendo radici antiche, l’idea di apprendimento esperienziale ha trovato una sua compiuta teorizzazione con Kolb, ideatore dell’omonimo ciclo. E oggi è un metodo formativo molto utilizzato, soprattutto nelle organizzazioni.

Quando si scava nel mondo della formazione per le aziende e per lo sviluppo dei talenti personali è facile imbattersi nel concetto di formazione esperienziale. Si tratta, infatti, di una delle metodologie di maggior successo. Come spesso accade, però, a tanta notorietà si accompagna anche una buona dose di approssimazione. È così che la formazione esperienziale finisce per essere conosciuta male o confusa con concetti limitrofi. Ovviamente, essere esaustivi su un tema così complesso all’interno di un articolo non è possibile. Quello che si può fare, invece, è fissare alcuni punti cardine, a partire da una definizione ragionata di apprendimento esperienziale, passando per un accenno al Ciclo di Kolb e finendo con l’analizzare i vantaggi che una formazione di questo tipo può avere all’interno delle organizzazioni.

Cos’è la formazione esperienziale: definizione e brevissima storia

Ad un primo sguardo, la definizione di formazione esperienziale sembra abbastanza scontata: formarsi facendo esperienza. Che poi è un po’ quello che fanno i bambini, in modo naturale e spontaneo, ed anche quello che ognuno potrebbe continuare a fare per tutta la vita. Il nocciolo della questione è senza dubbio questo, ma fermarsi a questo livello significherebbe accontentarsi di un approccio superficiale. Meglio, quindi, provare a dare a tutto un po’ di profondità, aggiungendo degli elementi.

Partiamo dal punto più lontano nel tempo. Il concetto di apprendimento esperienziale, infatti, non è certo un’invenzione del XX secolo. Già Aristotele affermava che

le cose che dobbiamo imparare prima di riuscire a farle, le impariamo facendole”.

Ecco di nuovo il punto focale: fare e quindi apprendere, apprendere facendo. Però, pur riconoscendo al filosofo greco la paternità di questa intuizione fondamentale, bisogna avanzare di parecchi secoli per incontrare una strutturazione dell’esperienza come fonte di formazione. Il merito va soprattutto a David Kolb, il cui lavoro, però, poggia su solide fondamenta, rappresentate dall’elaborazioni di alcuni suoi illustri predecessori, come John Dewey, Kurt Lewin e Jean Piaget.

La definizione che Kolb dà di formazione esperienziale è illuminante:

“un processo in cui la conoscenza viene creata attraverso la trasformazione dell’esperienza.”

Cosa c’è di nuovo e di interessante? C’è il riferimento alla trasformazione, cioè ad un processo attivo che sta tra l’esperienza e la conoscenza. L’uomo, quindi, non impara semplicemente facendo le cose ma riflettendo su quel fare ed estraendo dall’esperienza il contenuto dell’apprendimento. Il succo della formazione esperienziale sta tutto qui.

Per approfondire: Coaching e valorizzazione dei talenti

Formazione esperienziale e Ciclo di Kolb

Partendo da questo approccio, Kolb elabora un modello, chiamato Ciclo di Kolb o Ciclo dell’apprendimento esperienziale. Secondo questo schema, la formazione esperienziale si articola in quattro fasi:

  • Esperienza Concreta: vivere esperienze in situazioni verosimili e reali per confermare e, a volte, scoprire le proprie risorse e il proprio potenziale;
  • Osservazione Riflessiva: riflettere sulle strategie adottate individuando aree di forza, debolezza e risorse agite;
  • Concettualizzazione Astratta: acquisire i presupposti metodologici che servono per gestire in modo ancora più efficace la situazione;
  • Sperimentazione Attiva: prendersi l’impegno di utilizzare i nuovi apprendimenti acquisiti nelle successive attività.

Attività formative indoor e outdoor

Secondo il Ciclo di Kolb, quindi, tutto ha inizio con l’esperienza, ma su questa è fondamentale che poi si innesti la riflessione e l’astrazione. Traducendo tutto ciò in un percorso formativo, si può dire che le sue due anime devono essere costituite dall’attività concreta che il formatore fa sperimentare ai partecipanti e dal successivo debriefing, che serve per guidare la riflessione.

Il successo dei progetti di formazione esperienziale ha portato anche alla moltiplicazione delle tipologie di attività che vengono proposte. Si va da quelle più tradizionali, generalmente indoor, a quello con profili più avventurosi e di contatto con la natura, che si svolgono outdoor. Il senso, però, rimane lo stesso: mettersi alla prova, sperimentarsi.

Investi in formazione esperienziale attraverso la formazione finanziata e i fondi interprofessionali

L’importanza della formazione esperienziale per le organizzazioni: la valorizzazione dei talenti

Come già detto, la formazione esperienziale è una metodologia di sviluppo dei contenuti ampiamenti utilizzata nei percorsi dedicati alle organizzazioni. Infatti, si rivela estremamente efficace quando si ha l’obiettivo di lavorare sullo sviluppo dei talenti, con un approccio coinvolgente fondato sulle emozioni.

Solo a titolo di esempio, ecco alcuni percorsi e attività a cui può essere applicata la formazione esperienziale:

  • assesment center;
  • sviluppo della leadership;
  • team building;
  • change management;

Ciò che è fondamentale per la riuscita dei progetti, è affidarsi a formatori qualificati e capaci di elaborare dei percorsi personalizzati. Perché la standardizzazione ha poco a che fare con l’apprendimento esperienziale.


Intelligenza emotiva, cos’è e perché è importante

Cos’è l’intelligenza emotiva? Quali sono le sue caratteristiche nella teorizzazione di Goleman? Quali benefici porta nella vita personale e nel lavoro? Come misurarla e come svilupparla? In questo breve approfondimento ci sono le risposte a tutte le curiosità più importanti sull’intelligenza emotiva. Una nuova strada per imparare a gestire i sentimenti.

La contrapposizione tra intelligenza ed emozioni è un retaggio culturale duro a morire. Ancora oggi, nel linguaggio comune, si tende separare nettamente tutto ciò che è razionalità (automaticamente ricondotto all’intelligenza) da quello che invece attiene alla sfera dei sentimenti (e quindi delle emozioni). Addirittura, si tende a collocare questi elementi in parti diverse del corpo: l’intelletto nel cervello e le pulsioni sentimentali del cuore. Le teorie che ruotano attorno al concetto di intelligenza emotiva frantumano proprio questi steccati, mettendo insieme, in un binomio rivoluzionario, ciò che pensiamo e ciò che sentiamo. D’altra parte, accettare questa idea significa anche superare un ulteriore luogo comune, cioè la concezione monolitica dell’intelligenza, che dovrebbe essere unica e granitica e invece è multipla. Questa rottura rispetto all’opinione diffusa spiega probabilmente il grande successo che ha avuto negli ultimi anni la teorizzazione dell’intelligenza emotiva, di cui questo articolo prova a tratteggiare gli elementi fondamentali.

Cos’è l’intelligenza emotiva: definizione e modelli

Enunciare una definizione precisa dell’intelligenza emotiva (abbreviata con la sigla EI, in inglese) non è semplice, a riprova del fatto che si tratta di un concetto nuovo e ancora in evoluzione. Una buona e valida sintesi, però, è sicuramente quella proposta da Salovey e Mayer, professori statunitensi che per primi ne hanno parlato:

“(Intelligenza emotiva è) la capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguerle tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”

Su questa linea si muove anche la definizione proposta da Goleman, autore del libro più famoso sul tema, intitolato proprio “Intelligenza emotiva”:

“È la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli altrui, di motivare noi stessi, e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali”

Leggendo entrambe queste enunciazioni, pur nelle loro differenze, appare chiaro che l’intelligenza emotiva è un concetto complesso e cruciale, che non può certo essere ridotto a una generica e non meglio precisata empatia o gentilezza, men che meno a una impalpabile e innata felicità. Parliamo, invece, di un qualcosa che può determinare il successo personale e professionale, e che può essere allenato.

Il modello di Salovey e Mayer

I già citati Peter Salovey e John D. Mayer, psicologi statunitensi, sono considerati i primi teorizzatori dell’intelligenza emotiva. Nella loro concezione, questa si compone di quattro abilità:

  • Percepire le emozioni proprie e altrui, cogliendone indizi in tutti i canali di espressione (volto, tono della voce, gesti, ecc);
  • Comprendere le emozioni nelle loro caratteristiche essenziali e nel loro sviluppo;
  • Usare le emozioni, applicandole alla vita di tutti i giorni, sia sul piano personale che su quello professionale;
  • Gestire le emozioni, sia proprie che altrui, orientandole al raggiungimento di un obiettivo.

L’intelligenza emotiva secondo Goleman

Le quattro abilità enunciate da Salovey e Mayer diventano cinque nella visione di Goleman, psicologo e giornalista statunitense che è forse il nome più citato quando si parla di intelligenza emotiva.

Le cinque abilità secondo Golem sono:

  • Consapevolezza di sé, intesa come capacità di conoscere le proprie emozioni e saperle esprimere;
  • Gestione di sé, intesa come forma di autocontrollo che permette di dominare le emozioni e incanalarle verso obiettivi specifici e proficui;
  • Motivazione, intesa come capacità di orientare se se stessi verso i proprio obiettivi, con impegno e positività;
  • Empatia, intesa come capacità di percepire e ascoltare le emozioni delle persone con cui si entra in contatto;
  • Abilità sociali, intese come capacità di gestire le interazioni, i conflitti e i problemi di comunicazione.

Inoltre, ciascuna di queste cinque competenze, secondo Goleman, corrispondono delle abilità pratiche.

A cosa serve l’intelligenza emotiva

La motivazione dell’interesse che ha suscitato e suscita ancora oggi l’intelligenza emotiva va ricercata negli effetti benefici che provoca sulla vita degli individui e sulle loro relazioni. Avare una buona intelligenza 4emotiva e curarne lo sviluppo, infatti, permette di vivere in maniera più sana e consapevole e di avere successo nella vita professionale.

Sul piano personale, questo tipo di intelligenza è solitamente associato a una migliore conoscenza di sé e quindi ad un livello di autostima più alto e a un benessere psicologico maggiore. Tutto può avere ulteriori risvolti positivi nel rendimento scolastico come in quello professionale. Conoscere bene se stessi, inoltre, significa anche sapersi relazione meglio con gli altri, io tutti i contesti sociali in cui si agisce, come famiglia, amici e lavoro. In particolare, nel mondo del lavoro, a cui golem ha dedicato molta attenzione, l’intelligenza emotiva sarebbe caratteristica essenziale di una leadership di successo.

EQ: misurare l’intelligenza emotiva

Se è vero che l’intelligenza emotiva ha tutti questi vantaggi, appare molto importante riuscire a misurarla e a svilupparla. E quello della misurazione è proprio un dei punti deboli delle teorizzazioni su questo tema, almeno a detta dei detrattori. Mancherebbero, infatti, dei criteri sufficientemente obiettivi per fondare il calcolo dell’EQ (da affiancare all’IQ, il quoziente di intelligenza classico).

Di test valutativi ne sono stati elaborati diversi, sia nel modello di Salovey e Mayer, sia in quello di Goleman. Attualmente, i più diffusi sono:

  • Emotional Competency Inventory (ECI);
  • Emotional and Social Competency Inventory (ESCI),
  • Emotional Intelligence Appraisal.

Come sviluppare l’intelligenza emotiva

Ancora più importante di una corretta misurazione, però, risulta la possibilità di accrescere la propria intelligenza emotiva, di svilupparla con tecniche mirate, proprio come se si trattasse di un allenamento. Il processo, ovviamente, è lento e graduale ma parte sempre da una scelta: prendersi del tempo. Saper aspettare, infatti, è la chiave per entrare in contatto con le proprie emozioni e decodificarle. La fretta, invece, tende a non far vedere le cose, non aiuta la percezione.

Per iniziare, è possibile percorrere questi tre step:

  • Sintonizzati: impara a prestare la giusta attenzione ai tuoi sentimenti e alle tue emozioni;
  • Rispondi: datti il tempo per comprendere e valutare, senza reagire d’istinto;
  • Resta connesso: ricorda sempre cosa è importante per te.

Lo sviluppo dell’intelligenza emotiva, d’altronde, passa attraverso la risposta a tre domande di senso:

  • Cosa sto provando?
  • Quali possibili scelte ho davanti?
  • Cosa voglio davvero?

Contattaci per intraprendere un percorso di sviluppo dell’intelligenza emotiva

 


Coaching, un percorso di crescita che valorizza il talento

Cos’è il coaching? Cosa fa un coach? Come si svolge un’attività di coaching e quali metodologie vengono applicate? Questo articolo prova a rispondere in maniera chiara e sintetica alle principali domande che riguardano questo percorso, di cui si fa ampio uso nei programmi di formazione, sia personale che aziendale.

Il termine coaching, nel mondo della formazione, è ormai ampiamente diffuso e conosciuto. Nato negli Stati Uniti negli anni ’60, oggi gode di ampio successo anche in Italia. Spesso, però, si fa di questa parola un uso scorretto, finendo per dare alla professione del coach un contorno troppo sfumato, che a volte, nell’immaginario collettivo, finisce per sfociare in quella di psicologo o psicoterapeuta. In realtà, non è affatto così, sia da un punto di vista formale che sostanziale. Ma allora cos’è il coaching? E chi è e cosa fa un coach?

Cos’è il coaching: definizione e tipologie

Di possibili definizioni del coaching ce ne sono molte. C’è chi parla di metodo, chi di percorso, chi invece si esprime in termini di allenamento. D’altra parte, una buona dose di ambiguità c’è anche nella traduzione letterale del termine inglese, che può essere reso come “istruire”, ma anche “guidare” e “allenare”, a seconda dei contesti.

Un riferimento da tenere on considerazione è sicuramente la normativa UNI 11601:2015, che disciplina alcuni aspetti di questa attività. In particolare, questa norma definisce il coaching come “un processo di partnership finalizzato al raggiungimento di obiettivi definiti”. I soggetti coinvolti, quindi, sono due: il coach e il coachee (che può anche essere rappresentato da un gruppo di persone). Per quanto riguarda i citati obiettivi, è sempre la normativa a qualificarli, parlando del coaching come di un’attività volta a “migliorare le prestazioni professionali e personali mediante la valorizzazione e il potenziamento delle sue (del coachee, ndr) risorse, capacità personali e competenze”. Detto in altre parole, al coach è affidato il compito di supportare il coachee in un percorso di crescita personale e/o professionale, per trasformare la paura del cambiamento in energia e opportunità.

Le diverse forme di coaching

Nel tempo, il concetto di fondo del coaching è stato esteso per adattarlo a diversi campi di azione. Ne sono scaturite, così, una miriade di declinazioni. Sempre facendo riferimento alla UNI 11601:2015, si possono individuare le seguenti tipologie:

  • Business coaching e Career coaching: indirizzati ai dipendenti di un’azienda ma anche a imprenditori, manager, quadri, commerciali, liberi professionisti, ecc;
  • Corporate coaching: utilizzato dalle aziende per formare figure specifiche su cui investire;
  • Executive coaching: espressamente pensato per chi ricopre ruoli di direzione;
  • Life coaching: finalizzato a facilitare le persone nell’elaborare programmi di autosviluppo e autoefficacia;
  • Parent coaching: destinato ai genitori;
  • Performance coaching: con focus sul miglioramento delle prestazioni nei diversi contesti di riferimento;
  • Sport coaching: focalizzato sul settore sportivo, per affiancare allenatori e tecnici e migliorare le prestazioni sportive degli atleti attraverso la preparazione mentale;
  • Targeted coaching: destinato a sviluppare competenze specifiche e comportamenti coerenti;
  • Teen coaching: di supporto agli adolescenti nella conoscenza di sé.

La figura professionale del coach

Alla luce di quanto detto finora, appare chiara la centralità della figura del coach, che ha un ruolo chiave nella strutturazione del percorso di coaching e nella sua realizzazione. In Italia, la professione di coach non è regolamentata, quindi non esiste un ordine professionale (come c’è, invece, per gli psicologi e per altri professionisti). Non esiste, perciò, una legge che fissa i requisiti minimi che si devono possedere per esercitare l’attività di coach né un percorso di studi prestabilito. Su questi punti, non è intervenuta neanche la normativa già citata, che si è limitata a fissare i requisiti del rapporto tra coach e coachee.

Il fatto che non esista una regolamentazione, non toglie che per svolgere la professione di coach sia fondamentale possedere conoscenze, competenze e caratteristiche che vanno oltre la “semplice” empatia. Infatti, i suoi compiti, all’interno di un percorso di coaching, si articolano su più livelli:

  • Facilitare la scoperta e la comprensione degli obiettivi individuali;
  • Far emergere dal coachee soluzioni e strategie che gli permettano di raggiungere i suddetti obiettivi;
  • Guidare il coachee ma lasciandogli piena autonomia e responsabilità.

Obiettivi e metodologie dei percorsi di coaching

Secondo la UNI 11601:2015, il servizio di coaching deve includere necessariamente le seguenti attività:

  • Ideazione del patto di coaching;
  • Individuazione delle competenze e delle risorse del coachee;
  • Definizione degli obiettivi e del conseguente piano di azione;
  • Feedback di conclusione.

L’inizio di un percorso di coaching passa attraverso un primo colloquio individuale, che serve proprio a fissar esigenze e obiettivi e a tracciare le linee guida dell’attività successiva. Ovviamente, questa fase di studio influisce anche sulla durata del percorso.

Gli obiettivi che coach e coachee stabiliscono, quindi, sono il cuore di tutto il percorso. Come strumento, il coaching può essere indirizzato verso molteplici finalità, come:

  • Aprirsi nuove possibilità di crescita umana e professionale;
  • Imparare a fare scelte e prendere decisioni;
  • Migliorare la gestione del proprio tempo;
  • Migliorare i rapporti di lavoro;
  • Incrementare la capacità di problem solving.